Quando ero piccola, un pò come tutte le bambine, ero innamorata di mio padre. Lo amavo di un amore bambino, incondizionato e sconfinato. Era l'uomo forte e imbattibile, la quercia e la roccia su cui riposare quando mi sentivo stanca, ma non andavo a letto se non quando lo faceva lui.
Tutto ruotava intorno a mio padre. Le sue braccia erano immense e il suo sguardo buono e indomito, per un suo cenno di approvazione o una risata potevo diventare una saggia piccola donna di cui essere orgoglioso o una buffona di corte. Perse l'aurea di divinità che gli avevo colorato intorno quando avevo 10 anni, mentre lo fissavo dallo stipite di una porta di ospedale smarrito in un letto che mi sembrava immenso, quasi fagocitato da quel bianco, dagli odori e dalla ferraglia. Impotente e sconfitto lui. Improvvisamente consapevole della sua umanità e fragilità io. Incapace di sintetizzare e di accettare questa sua debolezza riuscii ad avvicinarmi a fatica per baciarlo, con quel passo pesante di chi prova a camminare sott'acqua.
Sono passati 28 anni ed eccomi ancora su quella soglia a guardare mio padre con la stessa espressione smarrita di quella bimbetta incapace di accettare la sua imperdonabile mortalità e terrorizzata all'idea che mi abbandoni.