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martedì 15 giugno 2010

Altre madri e madri altui

fico d'india a Oliena fonte

La maternità in questi giorni è il filo rosso che attraversa i miei pensieri. Sarà perchè ben tre mie amiche e coetanee sono in dolce attesa e aggiornano via facebook un pubblico curioso sugli sviluppi di test, pancioni e smagliature. Sarà per le numerose assenze di una collega scaramantica che ancora non rivela cosa la tenga lontana dall'ufficio e vincolata a un regime alimentare che non  si è mai curata di seguire, ma ha sempre preso in giro. 
Sarà forse per il libro che ho appena finito di leggere, Accabadora di Michela Murgia.
Bonaria Urrai, la protagonista, è la sposa mancata di un marito scomparso in una guerra che non era preparato a combattere prima di poterla sposare. Madre orbata di figli altrui adotta l'ultima figlia di una donna povera come fill'e anima, figlia dell'anima. Bonaria, saggia ed essenziale come molte donne d'altri tempi,  impara a 15 anni, dopo le complicazioni del parto di una puerpera che abbiamo bisogno di chi ci aiuti a nascere tagliandoci il cordone, aiutandoci nel primo respiro, ma anche di chi ci aiuti a recidere il filo della vita, a esalare l'ultimo. E' lei l'ultima madre quella che da l'ultima carezza che mater pietatis pone fine alla sofferenza del malato terminale.
Una eutanasia accettata socialmente sulla quale ho sentito al massimo qualche bisbiglio, forse perchè nel paese dell'entroterra sardo in cui sono cresciuta si ereditavano più facilmente racconti di suicidi o di vendette consumate con l'accetta, storie di odio e di dolore più che di pietà o compassione. Ma la radice di quel pensiero è talmente presente da entrarti dentro tanto quanto l'aria che respiri e il cibo che mangi.
E' il senso comune barbaricino di quello che è giusto o sbagliato, che si apprende nelle sere d'estate passate a prendere il fresco appena fuori dall'uscio, porte e finestre spalancate a far entrare aria e voci estranee eppure così familiari. Un codice di comportamento inculcato dalle frasi fatte delle Tzie, le signore e signorine del vicinato che coeducano i ragazzi cresciuti per le strade, figli di chiunque sia pronto a dare una lezione, anche con sonori sganassoni quando ritenuto neccessario. Appreso dalle sentenze dei vecchi sui fatti della vita e della morte, scampoli di saggezza arcaica trasmessa nelle feste di campagna tra un sorso di cannonau e uno di acquavite.
Mi chiedo cosa ne sia di questi genitori putativi ora che viviamo blindati nelle nostre case, i figli accompagnati e ripresi di corsa dalle uniche palestre di vita attuale, la scuola o l'ora di sport pomeridiana. Mi chiedo quanto abbiamo guadagnato e quanto abbiamo perso quando abbiamo conquistato il diritto alla privacy.


1 commento:

Alberto ha detto...

Quello che dici alla fine del post è visualizzabile a Milano con la fine delle case di ringhiera. Ciao.

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